Lo scorso 8 maggio, in occasione dei tradizionali festeggiamenti dell’Arcangelo S. Michele, sono stati celebrati i cinquant’anni dell’omonima parrocchia che si trova nella frazione di S. Simone in Crispiano.
Per l’occasione il dott. Giovanni Pergolese, già presidente diocesano dell’Azione Cattolica, ha tenuto una dotta relazione sul ruolo della parrocchia e l‘impegno dei cristiani.
“E’ con grande piacere – introduce Pergolese – che ho accolto l’invito di don Romano di commemorare con la comunità di San Simone il giubileo della Parrocchia dedicata a San Michele Arcangelo (1 maggio 1958-2008). Il ricordo dei sacerdoti, che qui hanno vissuto, e delle tante persone, che qui ritrovano le radici, è molto forte.
La memoria di questi primi cinquant’anni della vita della Parrocchia è ancora così nitida da rendere possibile la raccolta di testimonianze direttamente dai protagonisti. Ma la conversazione familiare di questa sera non si propone una sintesi storica sul primo giubileo parrocchiale, bensì una riflessione, alla luce del Magistero della Chiesa, sull’attualità della comunità parrocchiale e sulla sua freschezza ecclesiale.
Una breve cenno alla storia mi sembra tuttavia utile per cominciare a delineare il volto di questa comunità. L’Arcidiacono Giuseppe Blandamura, nell’opera “Badie Basiliane del Tarentino”, pubblicata 1919, sosteneva l’origine greca di San Simone a motivo dei numerosi reperti archeologici venuti alla luce nel suo territorio. Durante gli anni venti le ricerche effettuate dal Soprintendente Archeologo di Taranto, prof. Quintino Quagliati, portavano alla scoperta di sepolture, ricche di vasellame risalente all’eneolitico. Scriveva il Blandamura che S. Simini fu sempre “un aggregato di abitazioni attorno ad una chiesa”. Gli arcivescovi di Taranto istituirono, in quella parte montana, due parrocchie, una in S. Simini, l’altra in Cigliano, entrambe affidate poi ai Cistercensi del Galeso, fatti venire espressamente dalla Sambucina (antica abbazia cistercense nei pressi di Luzzi in provincia di Cosenza). Se tanto è vero noi possiamo desumere che i casali in parola (San Simini e Cigliano) datano dal principio del secolo XII…(Ne parla anche un documento del 1601). Dopo la scomparsa di questa antica chiesa, nel 1772 il priore del monastero dei Carmelitani di Martina Franca ottenne l’autorizzazione alla costruzione di una Cappella rurale per la celebrazione della Santa Messa. I Carmelitani costruirono la cappella, che a partire dal 1840 restò abbandonata. Venne restaurata nel 1891 dalla famiglia Martellotta, cui la masseria apparteneva. La stessa famiglia -tra tutti si distinse don Peppino per generosità, abnegazione ed entusiasmo – realizzò l’attuale Chiesa: la prima pietra venne posta l’8 maggio 1927, presente Mons. Orazio Mazzella, mentre la consacrazione ad opera di Mons. Ferdinando Bernardi e l’apertura al pubblico avvenne l’8 maggio 1938. Elevata a Parrocchia il 1 maggio 1958 da Mons. Guglielmo Motolese, che l’affidò alle cure pastorali del primo parroco don Giovanni Fiorino. Tanto si desume dalla lapide, voluta nel 1990 da don Domenico Lentini. Per ulteriori approfondimenti consiglio il testo di don Romano Carrieri “Piccola oasi di grande quiete”.
A questo punto ci chiediamo: è ancora attuale la parrocchia?
Nella nota della CEI “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia” del 2004 viene ripresa una definizione di Giovanni Paolo II: “la parrocchia è la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie. Agli inizi, la Chiesa si edificò attorno alla cattedra del vescovo e con l’espandersi delle comunità si moltiplicarono le diocesi. Quando poi il cristianesimo si diffuse nei villaggi delle campagne, quelle porzioni del popolo di Dio furono affidate ai presbiteri. La Chiesa poté così essere vicina alle dimore della gente, senza che venisse intaccata l’unità della diocesi attorno al vescovo e all’unico presbiterio con lui” (Esort. Ap Christifideles laici). La parrocchia è dunque una scelta storica e pastorale della Chiesa; è la forma storica della Chiesa particolare legata al territorio, che rende visibile l’annuncio del Vangelo per la vita dell’uomo e i frutti della comunione che ne scaturiscono.
Il Concilio Vaticano II dice che la parrocchia è “come una cellula” (Ap. Act. n.10), a cui appartengono i battezzati che dimorano in un determinato territorio senza esclusione di nessuno e senza possibilità di gruppi elitari. In essa si vivono vincoli concreti di conoscenza e di amore, e si accede ai doni sacramentali, al cui centro è l’Eucaristia; ma ci si fa carico degli abitanti di tutto il territorio, sentendosi mandati a tutti (Cfr. CJC, can. 515).
Perché la Chiesa istituisce le parrocchie?
Nella comunità cristiana la parrocchia nasce per comunicare la fede al popolo e quindi per far crescere il Vangelo. Attraverso di essa la Chiesa cammina con l’umanità tutta. Nel cattolicesimo italiano le parrocchie hanno indicato la “via buona” secondo il Vangelo di Gesù e hanno coltivato il senso di appartenenza alla Chiesa. Dire di credere in Gesù e di non volere la Chiesa è sintomo di una grave patologia della vita cristiana.
Quale è lo stato di salute delle parrocchie, oggi?
Non mancano i problemi, che comunque verranno superati, come è sempre stato, perché la parrocchia nel corso della storia ha affrontato tanti cambiamenti. Dal recente Convegno Ecclesiale di Verona è emerso che la Chiesa ha bisogno di una parrocchia “missionaria” per annunciare il Vangelo e per stare vicino alla vita della gente e ai suoi problemi. Fino ad oggi i sacramenti del Battesimo, dell’Eucaristia e della Confermazione venivano ricevuti nel contesto della vita familiare, sostenuta da un percorso catechistico. A causa della crisi della famiglia spesso non viene chiesto il Battesimo per i bambini; i ragazzi battezzati non accedono ai sacramenti dell’iniziazione o se vi accedono disertano la messa domenicale; troppi dopo aver ricevuto il sacramento della confermazione scompaiono dalla vita eccelsale. Che fare? Occorre una parrocchia missionaria.
Che significa una “parrocchia missionaria”?
Non si può più dare per scontato che si sappia chi è Gesù, che si conosca il Vangelo, che si abbia una qualche esperienza di Chiesa. Questo vale per fanciulli, ragazzi, giovani e adulti; vale per la nostra gente e per gli immigrati. C’è quindi bisogno di un rinnovato primo annuncio della fede, di una nuova evangelizzazione, cioè della comunicazione della fede da credente a credente. Ricordare ad ogni cristiano questo compito è dovere della parrocchia, che educa all’ascolto della parola di Dio, con la lettura della Bibbia nella fede della chiesa. In questo contesto si colloca anche il dialogo tra fede e cultura per incidere sulla cultura complessiva della nostra società. Sbaglia chi considera marginale il contributo del cattolicesimo perché l’Europa ha radici cristiane ed ha bisogno dei cristiani. Occorre anche vigilare sull’attivismo delle sette soprattutto tra gli immigrati perché non venga vanificata la comunicazione del Vangelo.
Possiamo pensare a qualcosa di centrale nella vita della Parrocchia missionaria?
La vita della parrocchia ha il suo centro nel giorno del Signore e l’Eucaristia è il cuore della domenica. L’eucaristia è la sorgente della missione. Ogni domenica, in ogni parrocchia, il popolo cristiano è radunato da Cristo per celebrare l’Eucaristia, in obbedienza al suo mandato: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). Scriveva Giovanni Paolo II nell’enciclica Ecclesia de Eucaristia: “…l’Eucaristia si pone come fonte e insieme come culmine di tutta l’evangelizzazione, poiché il suo fine è la comunione degli uomini con Cristo e in Lui col Padre e con lo Spirito Santo”.
Parrocchia e territorio. Perché la parrocchia fa riferimento ad un territorio?
Il riferimento al territorio ribadisce l’importanza della famiglia per la Chiesa. Infatti la comunità nel territorio si basa sulle famiglie, sulla vicinanza delle case, sul rapporto di vicinato. Ci sembra di poter così attualizzare l’invito di Gesù rivolto all’uomo liberato dai demoni, il quale vorrebbe seguirlo: “Va’ nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato” (Mc 5,19). La parrocchia è questo spazio domestico di testimonianza dell’amore di Dio. La presenza della parrocchia nel territorio si esprime nel tessere rapporti diretti con tutti i suoi abitanti, cristiani e non cristiani, partecipi della vita della comunità o ai suoi margini. Presenza nel territorio vuol dire sollecitudine per i più deboli e gli ultimi, farsi carico degli emarginati, servizio ai poveri, antichi e nuovi, premura per i malati e per i minori in disagio. Sprigionare una nuova fantasia della carità. Presenza nel territorio è anche capacità di dialogare con altri soggetti sociali. La cultura del territorio è composizioni di voci diverse; non deve mancare quella del popolo cristiano, nel nome del Vangelo, per il bene di tutti. Le parrocchie, con l’aiuto della diocesi, possono assumere un ruolo di mediazione nell’ambito del progetto culturale orientato in senso cristiano.
Nella nuova evangelizzazione, la parrocchia di quale Dio è portatrice? E’ portatrice del Dio di Gesù Cristo?
Blaise Pascal, scienziato e polemista del Seicento, nel Memoriale di una sconvolgente notte di fuoco (23 novembre 1654), che fino alla morte egli portò cucito sulla giubba come uno “scapolare”; in esso egli parla di un’esperienza quasi estatica che gli fece scoprire finalmente l’identità cristiana di Dio: “Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo…”1. La novità cristiana sulla conoscenza di Dio sta nell’averlo collegato a Gesù Cristo. Il Vangelo di Giovanni lo dice senza mezzi termini: “Dio nessuno lo ha mai visto, ma l’unigenito figlio ce lo ha manifestato” (1,18). E San Paolo, giudeo molto colto, aveva intuito questa novità, così che nel saluto conclusivo della Seconda Lettera ai Corinzi pone ogni cosa al posto giusto: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio, e la comunione con lo Spirito Santo, siano con tutti voi”. Si vede, cioè, che non si parte dall’alto, da Dio, ma dal basso, da Gesù Cristo: è lui la porta di accesso che permette di giungere a capire chi è il Dio della nuova fede.
Anche il giovane Mosè aveva ricevuto sul Sinai la rivelazione del nome di Dio, “Io sono colui che sono”, e si era sentito dire: “Io sono il Dio di tuo Padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6.14-16). Mosè sapeva bene che la propria fede era radicata nella storia di una famiglia, di un clan, di un popolo. Gesù citò le stesse parole in una discussione con il partito dei Sadducei per difendere la fede nella resurrezione, che quelli negavano: “Non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: ‘Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe’? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,32), dimostrando così che le persone del passato non sono finite nel nulla, poiché Dio stesso è la loro vita. Nel quarto Vangelo Gesù si pone scandalosamente prima di Abramo quando afferma: “Prima che Abramo fosse io sono” (Gv 8,58) equiparandosi a Dio stesso ma sottolineando pure la continuità storica e ideale con il patriarca. E Pietro, il giorno di Pentecoste, proclamerà solennemente ai Giudei: “Uomini d’Israele…il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato” (At 3,12.13). Perfino nell’annuncio sconvolgente della risurrezione di Gesù, dunque, non si dimentica che il Dio dell’evento più inatteso è in continuità con una storia e un popolo, che rappresentano la migliore preparazione evangelica. Alle origini, quindi, c’è la fede ebraica nel Dio della storia. E Giovanni sa bene che il Dio dell’Esodo (E’ lui che era in Egitto e che era al Mar Rosso. E’ lui che era nel passato e sarà nel futuro. E’ lui che è in questo mondo e sarà nel mondo a venire) è legato alla persona e al destino di Gesù Cristo, di cui nella Lettera agli Ebrei si sottolinea che “è lo stesso ieri, oggi, e nei secoli” (13,8).
Si capisce bene che un Dio così non è quello dei filosofi ma quello dei profeti, di coloro cioè che non si accontentano di riflettere sui problemi eterni dell’uomo, ma concentrano gli occhi sugli eventi della storia e, a volte, sanno scorgere una presenza che va al di là della storia. Ebbene, ciò che gli antichi profeti biblici hanno fatto nei confronti della storia di Israele e delle sue tappe maggiori (Abramo e i Patriarchi, Mosè e l’esodo, Davide e la monarchia, l’esilio babilonese, l’epopea dei Maccabei) i primi cristiani l’hanno fatto a proposito di Gesù e della sua vicenda terrena ed ultraterrena. Là hanno scorto ancora una volta all’opera il Dio dei Padri, che portava a compimento ciò che precedentemente aveva iniziato. Matteo è esplicito quando dice che “tutto avvenne perché si adempissero le scritture”. Anche Giovanni dice che Gesù è venuto per realizzare il suo progetto fino al grido finale: “Tutto è compiuto” (19,30). I primi cristiani pregarono Dio sapendo che in Gerusalemme “si radunarono contro il tuo santo servo Gesù…per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse” (At 4, 27-28). Anche San Pietro e San Paolo sanno con chiarezza di essere al servizio del Vangelo di Dio, già preannunziato dalle Sacre Scritture, e quella parola profetica è paragonata a una “lampada che brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2Pt 1,19).
Gesù durante la sua vita terrena dimostrò un concetto scandaloso di Dio, in quanto predilesse i poveri (malati –anche impuri- e peccatori), cioè coloro che erano disponibili a una proposta salvezza anche se inattesa. In questo contesto sono significative la parabola del Padre misericordioso o del Figlio prodigo (15, 11-32) o quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Si coglie non tanto la continuità del Dio di Gesù con il dio di Israele, quanto la discontinuità con la fede tradizionale del suo popolo. Allora si comprende perché la chiesa post-pasquale, e Paolo in particolare, proporrà un Dio scandaloso, questa volta incentrato sull’evento più imbarazzante della croce di Cristo.
Leggiamo sulla nuova lapide: “ A Dio, l’ottimo, il massimo. Volgendo il giubileo parrocchiale di questo tempio dedicato all’arcangelo san Michele, pontefice massimo Benedetto XVI, metropolita Benigno Luigi Papa, in rinnovato impegno di vita cristiana il popolo sansiminese a ricordo pose” 1 maggio 2008.
Quale l’impegno del cristiano nella società?
Non si può fare a meno di sottolineare che il modello di vita a cui il cristiano si rifà è unicamente Gesù Cristo. Per cercare l’identità dell’impegno cristiano, occorre partire da Gesù che dice“Chi vede me, vede il Padre”. Il cristianesimo sarebbe inutile e dannoso se non fosse al servizio della dignità umana. Il suo scopo non è tanto quello di condurre l’uomo a godere di uno stato di serenità vissuta al di fuori della storia, come se la sua realizzazione personale fosse possibile a prescindere da una rete di relazioni che lo legano all’insieme, cioè ai bisogni della collettività. A tal proposito è significativa la pagina di Matteo 25 concernente il giudizio finale. La descrizione di quel giudizio non fa che sottolineare l’importanza delle cose minute della vita quotidiana. E’ una prosa che dice di verbi di tutti i giorni: mangiare, bere, vestire, soffrire. “Avevo fame, …sete, …ero nudo, …ero malato”, “Mi avete dato da mangiare, …da bere, …mi avete vestito, …visitato”. Questa accentuazione del vissuto, del quotidiano, quasi del banale, sottolinea l’assenza totale della religione. Non si dice nulla delle credenze, delle osservanze, dei riti, nemmeno della preghiera. Al contrario, il cristianesimo appare come una realtà estroversa, proiettata sugli altri per contribuire a risolvere le loro necessità, quindi orientata ad una condivisione solidale, fatta non tanto di pace interiore quanto di benessere fisico. Il tradizionale elenco delle sette opere di misericordia corporale e spirituale costituisce il progetto di un’esistenza cristiana esigente. Infatti, in questo ideale di vita c’è Gesù stesso. Non solo perché egli dice se avete fatto questo, lo avete fatto a me, ma perché è stato proprio lui a comportarsi così, fino alla morte. E poi anche perché egli rivive personalmente nel cristiano, nel battezzato che lo impersona in modo nuovo spingendolo a donarsi ai bisognosi. Nella parabole del Buon Samaritano l’importante non è che io mi chieda chi è il mio prossimo, ma che decida in favore di chi io possa farmi prossimo. Gesù è l’archetipo di questo comportamento, in quanto si è fatto prossimo di chiunque donando ad ognuno se stesso.
Il volto di Gesù crocifisso non vale come esempio di mortificazione da imitare, ma come fonte di vita da cui attingere liberamente un affrancamento. In particolare, quello è il volto di chi non ha cercato la propria serenità, ma si è speso sino alla fine per la serenità altrui. Il Crocifisso offre un dono, che va accolto con gioia2.
L’umanesimo cristiano si realizza nella massima considerazione per l’altro. Gesù è Dio che si fa prossimo all’uomo: non solo perché l’uomo ne ha bisogno, ma è degno di lui.
Omettere l’impegno in favore del benessere umano sarebbe come impedire ad un albero di dare frutti. Ma tralasciare l’annuncio della fede è come tagliare le radici.
Tuttavia occorre assolutamente tradurre i contenuti della fede in impegno cristiano sul piano operativo per evitare che la fede diventi fanatismo, vanità e sogno. In definitiva, si tratta di trovare l’equilibrio vissuto da Gesù stesso”.
“Che fare? – conclude Pergolese a cui è stato espresso tutto l’apprezzamento da parte degli attenti e numerosi presenti – Si tratta di continuare ciò che si legge già nella Prima lettera di Pietro sul volgere del I secolo: “Voi lo amate, anche senza averlo mai visto, e, credendo ancora in lui pur senza vederlo, potete esultare di gioia indicibile e meravigliosa” (1,8)”.
Fonte: Michele Annese