RELAZIONE SPETTACOLO ANSI

Spettacolo culturale-musicale eccezionale, presentato al Teatro Comunale, dall’Associazione Nazionale Sottufficiali d’Italia – Sezione Rocco Convertino, a cura della “Band Rock Story” (Tonino Plamisano – chitarra, Antonio Tamburano – contrabbasso, Francesco Miccoli – batteria, Francesco Tagliente – tastiere, Renato Valente – pianoforte, voci Martino Luccarelli, Sharon Bello).
Una rassegna, organizzata e diretta dal dott. Renato Valente, su sollecitazione del presidente Pantaleone Lepraro, di canzoni che hanno caratterizzato la storia dei movimenti giovanili negli anni ’60 e ’70, nel contesto socio-culturale e politico del mondo nei suoi eventi storici. Appuntamento molto apprezzato dai numerosi spettatori presenti che hanno ripetutamente applaudito alle esilaranti esibizioni dei giovani artisti.
Lo spazio introduttivo al contesto socio-culturale in cui le canzoni di quegli anni presero vita ed espressero le profonde inquietudini tradotte nel fenomeno che si chiamò contestazione giovanile, è stato tracciato con meticolosa storicità, dal prof. Mimmo Calabretti.
“Quanti hanno vissuto la giovinezza intorno agli anni ’60, questa sera hanno il diritto di emozionarsi all’ascolto della musica che ha segnato quel decennio difficile, un decennio che ha fatto pulsare il cuore di migliaia di giovani, convinti di poter trasformare il corso della loro esistenza sovvertendo le regole della società, un decennio che abbiamo dentro e che, a distanza di quasi cinquant’anni, è tutto presente e vivo ancora. L’espressione “anni 60”. spontaneamente ci porta alla musica di quegli anni, ma la musica è solo una delle tante vie per ricordare un periodo ricco di fermenti e di trasgressioni di cui si sono scritti e si scrivono libri, articoli, saggi di sociologia e di politica, di documenti che mettono in campo rapporti delle questure, ciclostilati, volantini, trascrizioni di riunioni e convegni… La via della musica è la più romantica e la più conosciuta dalle nuove generazioni …Certo… i testi di Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber, Jannacci o dello sfortunato Luigi Tenco, aiutano a comprendere quel periodo segnato da un nuovo spiritualismo ispirato ai modelli orientali, una società perbenista che vide e mal sopportò i capelloni, le barbe fluenti, la trasandatezza, e soprattutto tanta ribellione riflessa ovunque: nella musica come nell’arte, nel cinema, nel teatro, nella narrativa. All’inizio degli anni ’60 l’Italia è un Paese che già si è incamminato sulla via dell’americanizzazione; la mitologia del benessere è simile a quella americana: in cucina il tavolo di legno viene sostituito con quello di formica e una storia d’amore si americanizza e diventa “love story”. Uno dei punti di somiglianza con gli americani è il culto per l’automobile; ma il rapporto tra l’italiano e l’automobile ricorda ancora il rapporto tra il cavaliere e il cavallo; su tutte le strade d’Italia si incontrano automobili ferme con il cofano sollevato per raffreddare il motore quasi fosse un animale da traino; al mito della macchina come idea di eleganza e di aggressività sociale, si unisce il mito collettivo della vacanza e dell’evasione, il mito della festa domenicale che contempla una nuova gestualità e festose soste ad autogrill dove i jouke-box invitano ad intenerirsi per gli appuntamenti di Gianni Morandi dal lattaio, per Patty Bravo che gira come un antico carillon o per le esili sfide della Caselli a cui fa male una certa verità”.
“L’italiano degli anni ’60 – prosegue l’escursus di Calabretti – è anche l’italiano-video; nel ’61 arriva il secondo programma e i tetti si coprono di una giungla di antenne: Carosello informa e convince sui cibi liofilizzati e precotti …sul bucato sempre più bianco, come difendersi dallo stress della vita moderna col carciofo di Calindri…avvia alla pratica dell’inquinamento con la pregevole plastica Moplen. Gli effetti della televisione si fermano alla superficie della coscienza e non vanno oltre …un merito riconosciuto da psicologi e da educatori è quello di aver mandato a letto i bambini di due generazioni dopo Carosello. La televisione è la prima vera rivoluzione del popolo italiano: mutano i rapporti familiari e gli argomenti delle conversazioni; si è presi da un eccessivo senso di modernità, si abbandonano i dialetti e si scopre la lingua di Dante; gli italiani si abituano ad una cortesia formale del tipo “grazie, prego,”; tutti imparano a ringraziare… anche chi abita in periferia, in via Cluk, e va a lavarsi nel cortile impara le buone maniere e al rifiuto della ragazza di ballare il tango con il casquè, risponde con un “grazie, prego, grazie, scusi … tornerò”. Don Backy, invece, scandalizza il perbenismo dei puristi con un “ancora una volta ho rimasto solo”. La moda impera e gli uomini planano compiaciuti i loro sguardi sulle migliaia di gambe al vento e le donne, tra fischi compiaciuti e commenti insolenti, perseverano ad indossare la fortunata creazione della stilista inglese Mary Quant: la scandalosa minigonna diventa il simbolo dell’ mancipazione e della ribellione femminile ad un conformismo morale miope e ormai solo di facciata. Gli anni ’60, rappresentano anche la crisi della civiltà contadina; ogni minuto un contadino volta le spalle alla sua terra ed emigra portando nel cuore gli odori degli ulivi e del mare, delle fresche acque delle fiumare calabresi, o solo le note della chitarra che suona più piano … nostalgia di sud che trovano in Al Bano, Reitano, Nicola di Bari, Marcella Bella i nostri migliori portavoce. Alla frontiera, sulle porte dei wc, si leggono le umilianti e perentorie indicazioni che dividono i più civili bisogni “degli svizzeri” da quelli dei più plebei “degli italiani”; e mentre i contadini del sud lasciano le campagne e arrivano nelle città del nord, nei torinesi nasce una reazione razzistica: appaiono i cartelli “non si affitta ai meridionali” e in occasione delle festività di Natale o Pasqua si leggono cartelli del tipo “buone feste ai piemontesi”; piemontesi sono razzisti ma imparano che anche i cafoni del sud sono dei buoni clienti e li accolgono nel loro sistema economico. In breve nelle fabbriche si supera l’individualismo tutto italiano e si comprende che l’essere in molti non svilisce l’individuo ma lo completa e lo rende sociale; gli operai delle grandi fabbriche ottengono la riduzione degli orari di lavoro, l’accordo sulle pensioni, l’istituzione della scala mobile.. .e infine lo Statuto dei Lavoratori. Così le migrazioni interne che all’inizio degli anni ’60 sembrano distruggere il Paese lo rafforzano e il miracolo della nuova Italia, bene o male si avvera; la disoccupazione è quasi inesistente; i giovani universitari, ancora prima della laurea, ricevono offerte per arruolamenti futuri al nord; è talmente facile trovare un impiego che i giovani sono liberi di scegliere il proprio lavoro, come si cerca il proprio destino.. E’ il momento del boom economico che farà ricordare gli anni ’60 come, anni mitici, irripetibili… i migliori anni del XX secolo. Freschezza di un inizio decennio che non promette dolori e non lacera il vissuto sociale ma che a breve irromperà in una prolungata rivolta generazionale, in estremismi e in confuse militanze politiche con il triste carico di violenze su cui ancora oggi ci si interroga”.
E mentre sullo schermo, in un filmato realizzato da Mimmo Lacorte, scorrono le immagini più significative che contraddistinsero quegli anni `60; (Papa Giovanni XXIII- J.F.Kennedy – I Beatles- la minigonna- Twiggy. La guerra nel Vietnam – gli Hippies, la contestazione giovanile in America, in Italia, I giochi olimpici nel Messico – il concerto di Woodstok), il prof. Calabretti prosegue sottolineando che “il sipario si è aperto sulle note di California Dreamin’ una canzone che nella seconda metà degli anni ’60 diventa un inno di libertà e di evasione dalla grigia monotonia delle città¬. … Ti sogno California e un giorno io verrò cantano i giovani americani che vedono in quella terra un rifugio dove poter stravolgere gli schemi della comunicazione, dove poter soddisfare la voglia di trasgressione, bruciando le tappe della giovinezza sulle tonalità delle chitarre elettriche di Jimi Hendrix, Jim Morrison o sui canti di protesta di Joan Benz e Bob Dylan”.
Clabretti aggiunge poi che “la contestazione studentesca italiana non rimane fuori dalla bufera internazionale, anzi si colora di suggestioni ancora più profonde; gli studenti hanno modelli forti rappresentati da figure suggestive. Papa Giovanni XXIII, Martin Luther King, Malcom X e su un altro fronte Che Quevara, Mao tsè tung, Ho Chì Min, tutti fanno montare le rivendicazioni dei giovani che vogliono cambiare il mondo, abbattere il potere costituito e la tradizione per realizzare nuovi valori fondati sulla giustizia sociale e sulla pace. Il grottesco episodio della censura al giornalino “la zanzara” del liceo milanese Parini e la controversia accesa dalla pubblicazione della lettera ad una professoressa di Don Lorenzo Milani, sono gli episodi che datano l’inizio più violento della contestazione studentesca in Italia. A tutte le latitudini i giovani manifestano contro il razzismo, la società capitalistico-borghese, la guerra nel Vietnam, le dittature latino-americane; si contesta il regime sovietico che soffoca la primavera di Praga e il socialismo dal volto umano di Dubcek, si contesta l’intransigenza di De Goulle nel Maggio francese; in Italia gli universitari protestano contro la cultura accademica ancora gentiliana, defascistizzata solo in pelle, si protesta in favore del diritto allo studio e del superamento dell’autoritarismo; il tutto avviene con manifestazioni, occupazioni, scontri con le forze dell’ordine; si scandiscono pittoreschi slogan (la fantasia al potere) tratti dalla fraseologia guevariana, maoista, limpiaoista, trotkista, leninista… un referto di confusione intellettuale. Sì, proprio un periodo difficile da sintetizzare o analizzare per i suoi variegati aspetti e, comunque, riconosciuta come una stagione che ha cambiato il tessuto sociale i cui effetti si mostrano di volta in volta nella vita di ogni giorno. II buonismo e il messianesimo che inizialmente avevano alimentato la contestazione giovanile a favore dei diritti civili sulla fine degli anni 60, lasciarono il posto all’infamia terrorista e criminale del decennio successivo… Le ferite aperte dalle stragi e dal terrorismo degli anni Settanta e Ottanta non impediscono, però, di parlare degli anni ’60 come di un’abbagliante primavera vissuta all’insegna di grandi ideali; non si trattò di un complotto internazionale, ma di un ricorso storico …l’emergere di una tendenza insita nella specie umana che per la sua evoluzione ha bisogno di periodiche rotture… per questa dimensione civile la contestazione giovanile è entrata di diritto nei libri di storia”.
“Nel variegato mondo giovanile attuale, apparentemente privo di significativi valori – conclude il prof. Clabretti – sembra di scorgere una nuova ondata di contestazione contro il sistema mondiale della cosiddetta globalizzazione; i giovani “no global” si interrogano ed interrogano i padri in quale misura sono somiglianti alla generazione del ’60. sessantenni, memori dei numerosi errori, tacciono…non sanno in quale misura “i no global i loro figli, i nostri figli” sono somiglianti ai giovani del 60, alcuni vorrebbero saperlo, altri lo temono”.
Lo spettacolo dal titolo “Ma che colpa abbiamo noi”, è proseguito con le esecuzioni della band che ha accompagnato i due giovani cantanti, molto applauditi per la loro voce e interpretazione molto professionale.
I singoli brani (“Il ragazzo della via Gluck”; “La pioggia che va”; “Come potete giudicare”; “Ma che colpa abbiamo noi”; “Piangi con me”; “C’era un ragazzo che come me”; “Auschwitcz”; “La casa del sole”; “Un riparo per noi”; “Proposta”; “Prendi la chitarra e vai”; “Dio è morto” e “Svaluteshion”) sono stati presentati dalla prof.ssa Maria Giovanna Pennica, la quale ha sottolineato il boom economico negli anni ‘60 e la nascita in Italia capelloni, i beat, gli hippy o figli dei fiori.
“I maschi – aggiunge la presentatrice – cominciano a saltare i loro regolari appuntamenti con il barbiere. Come per i giovani europei e americani il capello lungo diviene anche in Italia il simbolo di una libertà che rifiuta le convenzioni imposte dai “matusa”, come allora venivano definiti gli adulti. Le lunghe chiome esprimono quindi il rifiuto della omogeneizzazione borghese, parlano in favore della libertà dei sessi, e naturalmente, sono un invito alla pace. Le reazioni dei ben pensanti all’avvento dei capelloni sono furibonde. A scuola i presidi agitano le forbici, i genitori urlano, i barbieri continuano a tifare per Claudio Villa. Gran parte della stampa dell’epoca di destra come di sinistra va giù dura sull’argomento. Praticano il libero amore; non accettano la tranquillità borghese, fumano sigarette sospette. I nomadi cantano “chi vi credete che noi siam per i capelli che portiam” o “come potete giudicar” e capita che la polizia arrivi ad arrestare ragazzi trovati in possesso solo di una lunga chioma. Ma nel ‘66 però qualcosa cambia. Quando straripa l’Arno,infatti migliaia di capelloni corrono a Firenze. Combattono con il fango per salvare dalla rovina i tesori artistici della città, salvano migliaia di preziosi manoscritti alla biblioteca Nazionale,aiutano gli alluvionati. Sul “Corriere della Sera” il giornalista Giovanni Grazzini esalta questi “angeli del fango” e chiede perentoriamente che mai più si permetta di insultarli.. Alla fine il capello lungo viene accettato e perde fatalmente buona parte della sua carica eversiva ma continuerà sempre a essere un simbolo espressivo”.
“Anche cantanti ancora oggi di fama mondiale – prosegue la sig.ra Pennica – come Adriano Celentano definito ribelle con le sue mitiche mosse a scatto e soprannominato il molleggiato, inizialmente indignava i più perbenisti. Celentano tra le tantissime canzoni che ha prodotto senz’altro resta legato alla gente per la storia del “Ragazzo della via Gluck”. Il motivo è musicalmente più che gradevole, ma il testo è la cosa di maggior pregio: “questa e la storia di uno di noi anche lui nato per caso in via Gluck,in una casa fuori città, gente tranquilla che lavorava….” E’ la semplicità del linguaggio che sorprende subito:semplicità e chiarezza: come diceva Bertold Brecht: “non sono la sontuosità dei termini né la raffinatezza dei concetti che danno vigore a uno scritto; ma l’autenticità delle espressioni e il saper dire cose profonde con parole non ricercate, limpide.”
“Nel 1968 – aggiunge ancora la professoressa – Mogol dimostra di aver fiuto. L’Italia giovanile è in fermento e per i Rokes crea la canzone di protesta dal titolo “Che colpa abbiamo noi”. I suoi versi, non sono molto arrabbiati, ma fotografano bene la situazione di disagio che sta montando tra i ragazzi. A molti di loro, infatti,i valori trasmessi con il “miracolo economico” appaiono superati. All’individualismo, al potere tecnologico, all’esaltazione della famiglia e alle continue cambiali per mettere in moto i consumi rispondono con una sempre maggiore ricerca dei valori alternativi. Chiedono più cultura e immaginazione; nei costumi e in tema sessuale cercano maggiore libertà; sanno che studio e lavoro sono diritti e non concessioni. Si vestono liberamente; ascoltano Bob Dylan e si scatenano con il beat; leggono Camus e Sartre; marciano contro le guerre, inoltre si informano sui provos olandesi, sui campus statunitensi in fiamme, sulle lotte dei paesi sudamericani, su Martin Luther King, sulla rivoluzione culturale cinese,sul dissenzo cattolico,sul nuovo socialismo che si sviluppa nei Paesi dell’Est europeo per poi sfociare nella primavera di Praga. Torniamo alla musica: I Rokes con la canzone “Che colpa abbiamo noi”, si impongono come una bella bandiera per i giovani che, in nome di un mondo più libero e giusto, contestano le noiose ed egoistiche convenzioni degli adulti, il brano è una cover della canzone Cheryl’s Going Hom di Bob Lind che racconta tutta un’altra storia in quanto Mogol non prende in alcuna considerazione l’autore e preferisce inventare ex novo una canzone di protesta. Nei suoi versi da una parte ci sono i giovani, che aspirano a “una bella società fondata sulla libertà”, dall’altra gli adulti, che non sorridono più e sono condannati a difendere un vecchio mondo che sta crollando; le due parti non riescono proprio a comprendersi”.
L’ultima canzone presentata dalla prof.ssa Pennica è “Svaluthescion”, con la quale Celentano dimostra, con la sua innata ed istintiva abilità di cogliere, con largo anticipo, ogni più piccola indicazione di mutamento della società.
Come ospite d’onore della serata, si è esibito Elvino Miali, che ha cantato la canzone dei Pooh: “La casa del sole” accompagnato dalla “Rock Band Story”, che il noto gruppo ha riproposto in un loro recente cd.
“Una bella serata – ha sottolineato il presidente dell’Ansi Lepraro – che abbiamo voluto organizzare per dare un contributo culturale e sociale al paese, convinti che il nostro futuro è legato alle radici del nostro passato. L’associazione, in questa occasione, si è onorata della collaborazione di persone qualificate, quali lo storico prof. Mimmo Calabretti, che con la sua relazione ci ha fatto rivivere per qualche minuto la nostra gioventù; la prof.ssa Maria Giovanna Pennica, esperta e valida presentatrice e il socio Renato Valente, ideatore, organizzatore, promotore, regista, nonchè animatore. Un ringraziamento rivolgo anche ai giovani musicisti e alle splendide voci della band, molto apprezzate dal pubblico che ci ha onorato della sua presenza. E un grazie anche ai dirigenti dell’Ansi, per il contributo offerto per la riuscita della manifestazione”.

Fonte: Michele Annese