Una pagina sepolta sotto la polvere, riguardante l’occupazione delle terre incolte nel periodo 1948-2008, ci viene raccontata dall’appassionato studioso crispianese Franco Santoro.
Vicende molto interessanti vissute in prima persona dalla nostra gente nel secolo scorso che qui riportiamo integralmente.
“Quando il pane “non” era quotidiano, i braccianti agricoli del territorio delle cento masserie – racconta Santoro – vissero la loro pagina di storia per l’occupazione delle terre, emulando quelle vicende tragiche di Portella della Ginestra mai cancellate dalla memoria nell’intera nostra nazione. Come si ricorderà già prima dell’autonomia di Crispiano ( XIV Novembre 1919) tutte le terre fertili e coltivabili delle maggiori masserie erano in mano ai terrieri latifondisti( vedi masseria Le Mesole, La Fornace, La Pizzìca, Fanelli, Calvello, Acchille, Carmine, La Mastuola, Mongelli Vallenza) facendoli fruttare a loro vantaggio, adoperando quei “dannati della terra”( uomini e donne) miseri, denutriti e, lavorando oltre dodici ore al giorno pur di scongiurare quello spettro della fame che aveva come blasone la nera miseria. Le altre contrade: Difesa, Belmonte, Pozzo del Termite, Pianelle, tipicamente depresse e non coltivabili poiché pietrose e coperte da macchia cespugliosa, erano lo stesso in mano ai terrieri proprietari, avvedutissimi a difendere le loro terre con i loro guardiani-fattore. Se in queste zone semi-boschive, qualche misero bracciante si recava a recuperare alcuni fascini di legna da utilizzare per la cottura dei cibi, è veniva sorpreso dai guardiani–fattore, erano guai seri. Questi, li conducevano sotto scorta di fucile alla masseria dal proprietario, sequestrati i “fascène di macchje”, multati o peggio ancora denunziati alle autorità. Nelle masserie ad est di Crispiano : Monti del Duca, Lupoli, Oliovitolo ed altre ( molto distanti da poter giungere a piedi il posto di lavoro, circa 12/14 km. ), venivano adoperati braccianti prevalentemente dalle zone di Grottaglie, Villa Castelli e Ceglie Messapica. Il misero compenso giornaliero come riporta il contratto collettivo dei braccianti agricoli, ratificato dalla confederazione nazionale sindacati fascisti dell’agricoltura in data 12 dicembre 1933-XII E.F. era, per la zappatura: uomini lire sette; zappatura a leguminose: donne lire3,50. Molte zone del nostro territorio come molti conoscono, erano rocciose pieni di sterpi e non dissodate, la loro natura rendeva il lavoro dei nostri avi a dir poco inumano. A tal proposito suggeriamo di visitare tali zone dove ancora oggi sono ben visibili i lunghi muri a secco o quei “monumenti al lavoro” rappresentati da < le specchje de pètre> dove interminabili file di uomini e ragazzi trasportavano le pietre sul dorso e, molte volte s’impiegavano anche le donne, che, illusi “ ncapete,” complici di “ fattòre de massarèje” sfruttavano come schiavi egizi di antica memoria. Per ricordare i braccianti crispianesi che subirono quelle asperità della vita, chiediamo consenso ai nostri affezionati lettori, per farci propria, l’affermazione di L.A. Seneca che in merito “ai dannati della terra” così s’esprimeva : < i nostri padri vissero tempi senza macchia, quando ogni frode era sconosciuta. Ogni uomo quietamente invecchiava sulla sua terra, ricco del poco che aveva, non conoscendo altri beni che quelli che gli dava il suolo natale>. Nei secoli, la sorte dei contadini è sempre continuata ad essere attraversata da vicende di miseria. Noi, non possiamo seppellire sotto la polvere quanto è stato vissuto per lunghi periodi dai braccianti crispianesi, prima e dopo la guerra del 1915/18; durante e dopo di quella 1940/45. Una volta cessato il secondo conflitto bellico, rimase quello contro la miseria e la fame. La fatica del vivere giornaliero induceva tante famiglie (composte in maggior parte da otto-dodici persone) ad adattarsi per qualsiasi tipo di lavoro. In quel disastro epocale e, con la speranza nell’animo per un futuro migliore, i braccianti Crispianesi nel 1948 decisero di organizzarsi ed occupare le terre incolte, per coltivarle direttamente e scongiurare la fame. In quella lontana mattina di tarda primavera, poco dopo l’alba, un nutrito gruppo di circa trecento tra uomini e donne, partì dalla locale camera del lavoro del nostro paese, verso i terreni da occupare. I capi gruppo degli uomini erano : Torlotoje, Gèrasòle, Cucujgghje e u Cucche, mentre per il gruppo delle donne era a capo la signora De Cesare Maria Giovanna detta “ a Pacchianelle” (in foto) già vedova, con sette figli da sfamare, oltre alla pena che portavasi dentro per un altro figlio morto in guerra. Fu proprio “ a Pacchianelle” a portare la bandiera della camera del lavoro della sezione di Crispiano. Tutti i braccianti ( naturalmente a piedi) da Crispiano mossero verso le terre del Demanio, oltrepassando i costoni pieni di sterpaglie in contrada Belmonte–Difesa, arrivarono a ridosso della piana della masseria Tudisco-Migliara in agro di Taranto. Un altro gruppo – uomini e donne – circa una cinquantina, ( a piedi)scesero attraverso la provinciale per Statte, congiungendosi in gruppo unico, presso i terreni tenuti incolti dal Marchese Don Francesco Antonio Calò, proprietario dell’epoca. La masseria Tudisco, appartenuta nel 1578 al Magnifico Antonio Larizza e Donata Tedesco, dalla quale prese il nome, in seguito appartenuta ai D’Ayala, così come riporta sul muro di cinta lo stemma ( scudo diviso verticalmente, sulla fascia destra vi sono due lupi, nell’altra 9 uccelli attribuibile appunto ai D’Ayala). L’estensione complessiva della masseria era di 1450 tomoli,( 986 ettari) come risultava al catasto Onciario, libro II, foglio 112. Il Calò, proprietario dell’epoca, accortesi di quanto accadeva, seguito dagl’insistenti proclami da parte dei braccianti per l’occupazione delle terre, mandò i suoi guardiani–fattore, ad informare le autorità del capoluogo tarantino, facendo intervenire la Polizia–Celere, unita ad una squadra dei Carabinieri che sopraggiunsero sull’azienda. Alla signora De Cesare gli fu intimata da parte della Polizia-Celere, di consegnare la bandiera dei lavoratori, ordine che lei respinse energicamente. Dopo alcuni momenti di lieve tensione quel giorno si sciolse il corteo. L’indomani si riorganizzarono, partecipando più numerosi, arrivati nella frazione di Statte, alcuni braccianti stattesi si unirono a loro. Giunti nella masseria Tudisco, trovarono la Polizia-Celere già sul posto respingendo di fatto, l’occupazione delle terre. Fallita l’occupazione, venne promesso ai braccianti crispianesi che il Marchese Calò, avrebbe fatto una riforma agraria delle terre, con la stipula di contratti ventinovennali. Fin qui il nostro modesto accertamento dei fatti accaduti. Le notizie assunte sono confortate da diversi cittadini residenti tutt’oggi a Crispiano, figli di quella generazione di disperati, che, se da una parte avevano come compagne la fame e la miseria, dall’altra erano dotati di onestà e laboriosità. Pur in piccolo formato, noi, quei tristi episodi, li paragoniamo agli stessi intenti che mossero quei contadini di Portella della Ginestra, che per l’occupazione delle terre, il primo maggio 1947 furono uccisi 11 braccianti, con oltre 50 feriti. Naturalmente, gli avvenimenti crispianesi furono di molto, molto meno tragici. Di tragico, vi era uguale la fame e la disperazione. In seguito, con l’approssimarsi degli anni50, l’immigrazione verso la Svizzera, la Germania, e gli eventi naturali dell’epoca fecero cambiare d’abito gli uomini, pur rimanendo disperati per altre privazioni. L’avvento dell’era industriale poi, ha fatto il resto.
Il tempo che di solito riesce a coprire con strati di polvere ogni cosa, ci ha indotto a fare una visita a quelle terre che sessanta anni fa, furono oggetto di quelle lotte, le quali, avevano gli intenti per la sopravvivenza umana, affidandosi al duro lavoro. Se ai braccianti crispianesi nel 1948, lo sprone della fame li induceva ad occupare quelle terre incolte, ai nostri giorni, scongiurata la miseria e la fame (forse limitata a confini ristretti) ci s’impone un’altro tipo di sprone per la sopravvivenza. Consapevoli, nel visitare quelle terre, noi, certamente non potevamo ritrovare quella natura incontaminata di allora ma (ahi noi!) abbiamo constatato una contaminazione gratuitamente concessa, sotto specie di violenza occulta dalle belle ciminiere Italsiderine. Con le loro polveri sottili; quelle pesanti e forse, quelle nocive ed invisibile come la diossina, ci consentirebbe di non avere dubbi sulla realizzazione di un ambiente oseremmo dire apocalittico, dove realmente dal cielo scendono polveri distruttori di organi umani, compreso i loro possessori. Siamo certi, che i benpensanti affermeranno : l’uomo s’abitua a tutto. Potrebbe essere vero, solo se riesce a farla franca”.
Fonte: Michele Annese