Si parla da decenni dell’importanza dell’inquinamento a Taranto, fino agli avvenimenti recenti con giudizi contrastanti sui dati raccolti, coinvolgenti tutti gli organi tecnici preposti, il procuratore, il sindaco, le varie associazioni ambientaliste, i privati cittadini.
Si parla da decenni dell’emergere dell’inquietante problema della diossina che ha portato Taranto a diventare un caso nazionale.
D’altronde la presenza di un’area industriale che include uno stabilimento siderurgico, una raffineria, un cementificio, un porto crocevia dei maggiori traffici petroliferi mondiali e una serie di industrie minori, non può certamente portare ad un impatto zero.
Il caso del complesso siderurgico di Taranto è emblematico di come una visione non lungimirante del rapporto tra sviluppo industriale, sociale e sostenibilità ambientale non possa che portare col tempo gravi danni.
Va ricordato che negli anni fra il 2002 e il 2005, veniva deciso dalla direzione dell’azienda di spostare l’intera produzione di acciaio a Taranto, dopo che erano state chiuse la cokeria e l’altoforno dell’impianto di Genova. Secondo i dati dell’Ines (Inventario Nazionale delle Emissioni e delle loro Sorgenti), la crescita di diossina nell’aria sarebbe stata superiore al 60%.
Dal 2005 quindi irrompono nel dibattito la diossina e i policlorobifenili, tra i composti più tossici e cancerogeni, e l’attenzione dell’opinione pubblica sull’industria siderurgica cresce, come le misurazioni e le valutazioni, i sequestri degli impianti, gli accordi con i proprietari dello stabilimento, che si impegnano a ridurre le emissioni, a bonificare, a concordare provvedimenti di Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) e così via.
Per questo motivo l’area industriale è stata costantemente monitorata attraverso dati e rilevazioni, per supportare delle certezze scientifiche a sostegno di politiche ed interventi di governo.
Gli studi, le analisi e le relative conclusioni a cui sono giunti i vari team scientifici promossi dall’autorità civile, politica, giudiziaria e dalle stesse industrie, gli esiti concreti di questi esami svolti a partire dagli anni ’90, mostrano già che, sebbene le cifre raccolte abbiano valenza scientifica, sono importanti le interpretazioni, che lasciano spazio a manovre diverse e in contrasto tra di loro.
La politica dell’Unione Europea in materia di ambiente si fonda sul principio della precauzione, dell’azione preventiva e della correzione dell’inquinamento alla fonte, nonché sul principio chi inquina paga.
Il principio di precauzione è uno strumento di gestione dei rischi cui è possibile ricorrere in caso d’incertezza scientifica in merito a un rischio presunto per la salute umana o per l’ambiente derivante da una determinata azione o politica.
Per esempio, qualora sussistano dubbi in merito all’effetto potenzialmente pericoloso legato alla produzione industriale di un prodotto e qualora, in seguito ad una valutazione scientifica obiettiva, permanga l’incertezza, può essere impartita l’istruzione di bloccare la produzione di tale prodotto.
Tali misure devono essere non discriminatorie e proporzionate e vanno naturalmente riviste non appena si rendano disponibili maggiori informazioni scientifiche e più certezze.
Per questo motivo, è di qualche giorno fa la notizia, dopo il referendum consultivo sulla chiusura totale o parziale dell’Ilva che fu votato da circa 33 mila persone non raggiungendo il quorum, il Comitato Taranto Futura, ne ha riproposto un altro.
Il presidente Nicola Russo ha chiesto al sindaco Melucci, lo svolgimento di un nuovo referendum comunale.
Sono due i quesiti da sottoporre all’attenzione: chiusura dell’area a caldo dell’attuale industria siderurgica Arcelor Mittal o allontanamento della fabbrica dal centro abitato, per rispetto del principio di precauzione.
“ A questo principio fa riferimento anche il Regolamento Comunale di Igiene e Sanità. Quando c’è il rischio potenziale per la salute dei cittadini, pertanto il sindaco ha due soluzioni, o disporre l’allontanamento degli impianti siderurgici, oppure disporre la chiusura dell’aria a caldo – ha riferito Nicola Russo – però noi abbiamo anche dato delle alternative, o bonificare utilizzando gli stessi lavoratori dell’area a caldo, o prevedere un premio incentivante per l’esodo anticipato o addirittura produrre le bramme fuori dal centro siderurgico tarantino”.
Il Comitato dei Garanti avrà venti giorni per approvare i quesiti, dopodiché saranno sufficienti tremila firme.
Rimane il fatto che a Taranto o perché manca effettivamente la volontà per dare seguito a certe decisioni, o perché le misure intraprese si rivelano sempre insufficienti, o perché diversi interessi non trovano mai un accordo, l’inquinamento ambientale resta a livelli altissimi e ha ripercussioni sulla salute e qualità della vita, ma anche sulle attività commerciali quali la pesca, l’allevamento, il turismo.
Il problema di fondo è che Taranto dipende ancora molto dalla grande industria, nonostante gli sforzi cominciati per andare in un’altra direzione, tanto da essere difficile trovare una via economica alternativa all’Arcelor Mittal o alle raffinerie.
Come è successo per altre città, bisognerà bypassare la monocoltura industriale con progetti di green-economy, di risanamento ambientale e urbano e di valorizzazione del settore turistico diventando un incubatore di progetti di riconversione industriale.
Vito Piepoli