DON TONINO BELLO

Scuole e associazioni ed ora anche le Parrocchie locali sono impegnati a rivalutare il dialetto non soltanto nella cultura popolare, ma anche nei testi letterari e religiosi.
In occasione della Pasqua si è svolto nella Chiesa Madre di Crispiano un concerto della Settimana Santa, eseguito dalla Banda Municipale “Città di Crispiano” (direttore concertatore m° prof. Francesco Bolognino) con la partecipazione del soprano prof.ssa Maria Rosaria D’Amato.
Durante la serata, organizzata dall’Arciconfraternita di S. Maria della Neve e della Confraternita dell’Immacolata e S. Francesco d’Assisi, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Crispiano, sono stati eseguiti brani musicali di Peluso, Cacace, Quadrano e Verdi, intercalati dalla lettura di brani del Vangelo in vernacolo crispianese e poesie di Don Tonino Bello, curati da Michele Vinci e recitati dalla sig.ra Rosa Lucaselli e Vito Santoro.
A termine della suggestiva serata il parroco Don Saverio Calabrese, ha sottolineato il significato religioso ed etico dell’iniziativa.
Michele Vinci, nella presentazione ha rivolto un ringraziamento a Don Saverio per la disponibilità e alla Banda che con impegno e, soprattutto, con fede, hanno preparato la serata, diventata ormai un appuntamento irrinunciabile.
“Per molti anni – ha detto Vinci – in questa circostanza abbiamo sperimentato la lettura di brani evangelici in vernacolo crispianese e l’esperienza è stata senz’altro positiva e apprezzata. Quest’anno abbiamo voluto alternare la lettura di tali brani con delle poesie di don Tonino Bello, instancabile testimone di carità e profeta di pace. La forza delle sue parole continua ancora oggi, a molti anni dalla sua scomparsa, a richiamarci alla nostra responsabilità di cristiani. Vogliamo provare a ricambiare i tanti doni preziosi che ci ha lasciato nei suoi scritti, dedicando alla sua memoria, la manifestazione”.
Don Tonino Bello, come è noto, nacque ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935. Fu ordinato sacerdote nel 1957 e nel 1982 divenne Vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi, condividendo la sua abitazione con alcune famiglie di sfrattati.
Lui, contagiava i giovani e chiunque incontrava, con il suo grande amore per la vita e per Cristo, con semplicità e umiltà, con coerenza e allegria.
Il Vescovo che amava la – Chiesa del grembiule – , ovvero la Chiesa semplice, facile, povera, sperimentò ben presto la difficoltà di farsi capire su questa lunghezza d – onda evangelica. Ma non fece difficoltà a comunicare con i giovani, che tanto amava, i quali capirono immediatamente quanto e come, questo piccolo uomo, stava cambiando le coscienze della gente.
I poveri poi erano il fulcro dell – attenzione di don Tonino, tanto che li aveva messi sullo stemma all – ingresso del vescovado e ben presto furono al centro di un progetto pastorale che coinvolse tutta la sua diocesi. Ma non solo, la povertà che lui predicava alla sua Chiesa non era retorica, astratta. Era una povertà che lui
stesso incarnava, nello stile di vita di ogni giorno e rappresentava la misura di ogni sua azione. Si pensi che non teneva per sé nemmeno la congrua di vescovo, che donava ai poveri, agli ultimi a chi aveva bisogno.
Nel giorno del suo compleanno, ormai stremato dalla malattia che lo aveva colpito, lasciò un bellissimo messaggio indirizzato soprattutto ai giovani, messaggio di speranza e un invito a volersi bene, a tradurre in pratica quello che Gesù ci dice con semplicità di spirito ed amare i poveri perché è da loro che viene la salvezza.
Qualche giorno dopo, don Tonino morì per un male incurabile, ma nonostante il dolore e le lacrime, la morte di don Tonino non fu un giorno di lutto, ma di gioia, la festa che segnalava l – inizio di una vita nuova.
“Siate soprattutto uomini. Fino in fondo – egli diceva – Anzi fino in cima. Perché essere uomini fino in cima significa essere santi…”.
Riportiamo qui di seguito uno dei brani del Vangelo letti in crispianese, riguardante l’albero di fico improduttivo:

L’arvue da féche mangunère

Criste disse pòre stu fatte:
N’omme tenève n’arvue de féche chiantète inte a vigna saue.
Scì pe accogghie le frutte ma na n’acchì.
Disse allore allu vignajule : “ Ste’ vére, so già tre janne ca venghe e vogghie accogghie qualche frutte da cusse arvue de feche, ma na jacchie me.
Usè ce affà: tagghiele. Peccè a sta do accupà a terre, iè na cose inutele….
Ma u vegnajule respunnì: Signore, lassele ancore nate de cussanne, damme u timpe ca u pulizze atturne e le mènghe nu picche de cungéme. Ce fèsce i frutte iè bune, senò u tegghième…..

Fonte: Michele Annese